Maedeh Ziarati lavora per la Cooperativa Impresa Sociale RUAH come mediatrice culturale ed è attiva sul progetto SafeNet sia con un ruolo di supporto nelle relazioni con le persone con background migratorio sia come formatrice per gli operatori e le operatrici della rete.
Buongiorno Maedeh, ci racconti la tua storia?
M.Z.: Sono una persona iraniana, nata e cresciuta in Libano. Sono madrelingua sia per la lingua persiana che per quella araba. In Italia sono arrivata 34 anni fa.
Ho seguito moltissime formazioni: all’agenzia per l’integrazione, come mediatrice museale, nell’ambito della giustizia riparativa e molte altre. Sono 25 anni che lavoro come mediatrice, ma la mia formazione è continua perché il mondo della mediazione cambia ogni anno.
Cos’è la mediazione culturale? Quali sono gli aspetti principali del tuo lavoro?
M. Z.: Per me la mediazione è un’arte, capace di creare dei legami nuovi tra le persone, prevenire i conflitti e ricucire rapporti deteriorati. Aiuta le parti in conflitto a trovare una soluzione, costruisce nuove relazioni tra le persone con una consapevolezza diversa.
Nella mediazione culturale lavoriamo con due parti: da un lato le istituzioni e dall’altro l’utente. Per me è fondamentale essere formati, rispettare le regole della mediazione senza sostituirsi né agli utenti né alle istituzioni. Il vero obiettivo della mediazione è rendere entrambe le parti autonome, anche se non sempre purtroppo questo avviene. Entrambe le persone coinvolte devono imparare delle strategie per incontrarsi, questo è quello che io auspico che succeda tra gli utenti e i servizi.
Qual è l’importanza di mediatori culturali all’interno del progetto SafeNet? Quale valore aggiunto porta?
M. Z.: In un progetto in cui al centro c’è la fragilità delle persone, il mediatore può svolgere un ruolo importante: siamo professionisti con esperienza, sappiamo cos’è la fragilità, spesso l’abbiamo vissuta in prima persona perché anche noi abbiamo storie di migrazioni.
Il nostro valore aggiunto sono l’essere straniero e il nostro training di ascolto attivo. Il fatto di essere aiutato e ascoltato da un proprio connazionale ha più valore, crea maggiore fiducia, aiuta a sentirsi accolti e al sicuro. Spesso persone che parlano benissimo in italiano smettono di parlarlo, quando arrivo, per tornare alla loro lingua madre, è un gesto di fiducia. La lingua è importante, le parole hanno un valore, sapere scegliere le parole giuste fa la differenza. La consapevolezza dell’utilizzo giusto delle parole può salvare le mediazioni. Siamo portatori di saperi che sono necessari per la prevenzione di conflitti.
In quali azioni sei stata coinvolta con le tue competenze su SafeNet?
M. Z.: Ci stiamo occupando di tenere un percorso di formazione per i partner del progetto. In molti credono, infatti, che il mediatore sia l’interprete, ma chi lavora su tematiche come la fragilità e la marginalità deve conoscere la nostra figura e il nostro ruolo.
Al primo incontro della formazione è stato molto bello perché c’erano tantissime persone presenti. È stata un’occasione per esporre il lavoro del mediatore. Purtroppo il nostro ruolo è sempre stato poco riconosciuto, ed è una delle cose che abbiamo spiegato: quando non ci sono i mediatori nei progetti è il caos perché si sbaglia a capire e riferire le cose.
Sono previsti altri appuntamenti formativi per i partner di SafeNet per affrontare il tema in modo più approfondito. Ma siamo anche a disposizione nel progetto per azioni di mediazione nella relazione con le persone intercettate.
SafeNet mi ha colpita perché dimostra una sensibilità e una cura verso l’altro, lodevoli.
Nella tua esperienza ci sono stati dei momenti che ti sono rimasti impressi, utili come esempi per far comprendere l’importanza della mediazione culturale nella fragilità?
M. Z.: Una volta ho svolto una mediazione con un ragazzo nigeriano che usa sostanze, il mio obiettivo era proporgli di entrare in una comunità. Mi era stato descritto come una persona diffidente, ma durante la mediazione, in poco tempo e con le parole giuste, ha accettato di intraprendere il percorso. Anche la psichiatra è rimasta sorpresa dalla velocità con cui ha accolto questa proposta. È stata una mediazione molto ben riuscita.
Un altro episodio l’ho vissuto con un ragazzo curdo-iracheno ospite in una struttura. A causa dei suoi comportamenti era stato deciso il suo allontanamento e, quando gliel’hanno comunicato, è esploso dalla rabbia. Mi hanno chiamato per mediare. Sono bastate poche parole — dette con calma, con il tono giusto — perché si tranquillizzasse. In quei momenti non contano solo le parole, ma come le dici. È un lavoro sulle emozioni, prima di tutto. Si è seduto, si è calmato e ha cambiato atteggiamento.
Bisogna porsi con apertura e sapere accogliere il lato umano e la fragilità legata alla psiche, alla memoria, al vissuto di chi è in uno stato di fragilità: non abbiamo vissuto la loro storia, non la conosciamo. Bisogna trattarli con delicatezza e pazienza per farli uscire da questo tunnel in cui si trovano. Come mediatori abbiamo la possibilità aiutarli a intraprendere questa strada verso la guarigione.
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