
Battista Pagani è un volontario del Centro di Primo Ascolto e Coinvolgimento “don Gigi Orta” di Castelli Calepio. Nelle sue attività di volontariato si relaziona anche con uno degli utenti che frequenta il nostro Pit Stop a Cividino.
Così abbiamo avuto l’opportunità di incontrarlo e conoscerlo, spesso si unisce a noi negli appuntamenti settimanali del Pit Stop. Abbiamo deciso di intervistarlo per scoprire un po’ di più della sua storia e per capire che tipo di valore ha per lui questa attività.
Da quanto tempo fai volontariato in questo spazio? Cosa ti ha spinto a iniziare questa esperienza?
B. P.: Ho 76 anni e una famiglia con 3 figli, ho lavorato per tutta la vita fino al 2019 quando sono andato in pensione. Non ho avuto contatti con la marginalità o con le persone povere per tutta la mia vita. Se mi avessero chiesto chi erano per me le persone povere avrei risposto che sono quelle che dormono per strada, perché nel mio immaginario c’era solo questa idea vaga, lontana.
Quando sono andato in pensione ho iniziato a dedicare il mio tempo all’attività che amavo di più, cioè camminare, e ho fatto il Cammino della via Francigena. Ma poi è arrivato il Covid, mi sono dovuto fermare, durante il lockdown ho scritto un diario di racconto del mio cammino, per tenermi impegnato.
Ma mi sono anche chiesto cosa potessi fare del tempo che avevo a disposizione ed è nata la possibilità di entrare in contatto con il Centro di Primo Ascolto di Castelli Calepio. Quindi nel 2022 ho iniziato a frequentarlo e dare una mano. Per un primo periodo ho fatto un po’ di borse con i beni di prima necessità da distribuire alle famiglie bisognose, e lì ho avuto i primi contatti con la povertà, iniziando a dare concretezza a una realtà che per me era astratta.
Di cosa ti occupi oggi come volontario?
B. P.: Un giorno i responsabili del CPAeC mi hanno informato che avrei potuto aiutare una persona in particolare, anche se non mi era chiaro in che modo. L’idea era di supportarla dandole delle attività che potesse svolgere per mettere a frutto le proprie capacità. All’inizio mi rendevo utile andando a comprare i materiali che gli servivano, con un approccio molto pratico. Ho scelto di non chiedere mai niente di personale, lasciando che piano piano si costruisse la fiducia e la relazione. Dopo 5 mesi questa persona ha iniziato spontaneamente a raccontarmi la sua storia, ad aprirsi con me. A quel punto è cambiato un po’ tutto: abbiamo iniziato a trovarci con più frequenza, ho capito che se una persona ha fiducia in te si apre e capisce che può affidarsi. Oggi abbiamo un bel rapporto, siamo contenti di stare insieme, ormai è una collaborazione, uno scambio reciproco. Nella relazione con me questa persona si è sentita capita e spronata a fare un po’ di più. Questa possibilità è stata una cosa positiva per entrambi, ci siamo fatti del bene a vicenda, mi ha dato la possibilità di mettermi in gioco e a aiutare un’altra persona.
Oltre a questo, svolgo anche altre attività con il CPAeC. Il CPAeC cerca di intercettare, attraverso la sua rete sociale, persone e famiglie bisognose. Si occupa di fare colloqui per individuarne i bisogni specifici, prepara pacchi mensili per le famiglie, se hanno figli che vanno a scuola aiuta economicamente con l’acquisto dei libri scolastici, per esempio. Oggi seguono una cinquantina di famiglie.
Che tipo di relazione si crea con le persone che frequentano questo spazio?
B. P.: In questa relazione specifica che ho io, fra le altre cose, ho avuto la possibilità di avvicinarmi e avere prossimità con la situazione di vita di una persona che vive una grande fragilità, ho capito che per chi vive questi contenti è come essere sulle montagne russe: ci sono fasi in cui si sta bene e fasi in cui invece si cade nel baratro. È una fragilità che riguarda vari aspetti della vita e anche, talvolta, una difficoltà nel capire quali siano le persone che valgono da tenersi vicine e quali quelle da cui è meglio prendere le distanze.
Rispetto a questa esperienza, ho notato che ultimamente i momenti di crisi della persona con cui mi relaziono avvengono con meno frequenza. Mi sono reso conto che, per questa fragilità grande che abita alcune persone, gli accompagnamenti come quello che svolgo io, o che viene svolto dagli operatori del Pit Stop, sono importantissimi. Avere vicino persone che aiutano e affiancano dà loro la possibilità di restare in alto un po’ più a lungo sulle montagne russe che attraversano.
In base alla tua esperienza qual è il valore di uno spazio come il Pit Stop per la comunità locale?
B. P.: Secondo me la comunità pensa che meno contatto ha con queste persone, meglio sia. Nel senso che sono situazioni che scombussolano la vita e la propria visione delle cose. E probabilmente è la stessa cosa che pensavo anche io, prima di iniziare questa attività.
Adesso invece ho iniziato ad aprire gli occhi, mi rendo conto che questi problemi non sono tanto lontani come possono apparire, ma anzi sono piuttosto vicini anche all’esperienza personale di ognuno. E allora penso che se uno conoscesse meglio le problematiche, i servizi, le realtà presenti saprebbe come muoversi con anticipo e con consapevolezza e quindi con maggiore efficacia.
Essere informati sulle realtà del territorio che si occupano di chi vive situazioni di difficoltà porterebbe a essere più attenti alle persone che si hanno vicino e all’intera comunità.
Ti ha cambiato questa esperienza a livello personale e umano?
B. P.: La cosa che più mi ha cambiato è che mi ha aperto gli occhi su un mondo che non conoscevo. Oltre a questo ho preso consapevolezza sul fatto che a una certa età le relazioni diventano più importanti di tutto il resto. Più riesci a stare bene insieme a un’altra persona, più fai del bene anche a te stesso.
Ho imparato che il mondo a cui siamo abituati, in cui si dà per avere qualcosa in cambio, in questa realtà non conta. Acquista molto più importanza dare che ricevere, perché nel dare sei molto più contento.
Si dà senza aspettarsi in cambio nulla, è la cosa più importante e che fa la differenza. Io non ho mai chiesto niente ed è stata la cosa più decisiva e importante. La relazione è nata da scelte spontanee e libere.
Se uno è credente, come me, pensa che questo incontro sia successo perché c’è stata una sorta di guida dall’alto. Questo è quello che sento io, ma l’esperienza di una persona non credente non ha senz’altro meno valore.
Cosa diresti a qualcuno che sta pensando di iniziare a fare volontariato in un contesto simile?
B. P.: Bisogna iniziare, senza preoccuparsi troppo. Io avevo un sacco di paure, non pensavo di riuscire, invece bisogna solo iniziare e poi, adagio adagio, con la volontà, tutto viene facile. Adagio, adagio, capisci cose che prima non vedevi e capisci di sapere fare cose che non pensavi di poter fare. Ma bisogna iniziare per capire che questo tipo di relazione è quella che ti fa star bene.
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